sabato 16 luglio 2016

I Giorni dell'Odio

Inghilterra, 1450.
La rivalità tra i conti di Brygthon e i baroni di Seymore costringe le due famiglie a combattersi per secoli. Una profezia ha predetto che l'erede dei Seymore riuscirà a sconfiggere i rivali, ma quando il conte di Brygthon viene a sapere che il barone ha avuto una bambina, si illude che la fine della sua casata sia scongiurata per sempre.
Vent'anni dopo, Duncan Brygthon (erede e primogenito del conte) viene fatto prigioniero con l'inganno dagli uomini del barone.
Sullo sfondo della Guerra delle Due Rose, una storia d'odio e d'amore.

Recensioni lettori Amazon

Non sono particolarmente amante dei romanzi con ambientazione storica, ma qui mi sono dovuta davvero ricredere.
Ho trovato questo romanzo intrigante, coinvolgente, con un ottimo intreccio narrativo e dei personaggi ben caratterizzati, da amare e da odiare.
In questo libro c'è tutto: intrighi, magia, contrasti, lotte, odio e amore.
L'autrice ha saputo dosare alla perfezione ogni elemento, facendo emergere anche una parte romance sofferta e passionale, ma mai sdolcinata.
Un libro completo, scorrevole e dinamico, che riesce a mantenere viva l'attenzione del lettore dalla prima all'ultima pagina.
Consigliato :)


Un libro scorrevole, dalla lettura facile, veloce e coinvolgente. Nonostante non ami particolarmente il genere, questo libro è riuscito a distrarmi e a farmi interessare alla storia. Ambientazione storica e un po' magica con un velo di amore che però non intacca la storia basata su altro. Incantesimi, battaglie, odio e amore si intrecciano prendendo il lettore. Aspetto il prossimo visto che a quanto pare questo è solo il primo volume.

Pur essendo un genere impegnativo, la lettura è scorrevole e piacevole; la trama, ben articolata nel contesto storico, rende la storia avvincente e coinvolgente, grazie anche ad una sapiente caratterizzazione dei personaggi e degli episodi narrati. Lo consiglio vivamente.

Una buona prova quella di Letizia Musu, considerando che si era sempre proposta con dei romanzi umoristici. Lettura gradevole e leggera ottima per rilassarsi durante le ferie. Un po' di storia, romance e mistero. Brava Letizia (e non solo)

venerdì 8 luglio 2016

Non mettetemi Fretta

Non mettetemi fretta                    


È una storia divertente e spesso surreale, che parla di Guido, quarantenne sposato. Da quando era ragazzino, Guido ha sempre avuto un sogno: essere un supereroe e trascorrere la sua esistenza salvando il mondo. Però c'è un problema, perché Guido è pigro, pieno di fobie, terrorizzato dal suocero, dalla possibilità di diventare padre e da altro ancora. 
Tra situazioni comiche e surreali, scene al limite dell'assurdo e riflessioni serie e profonde, Guido finirà per affrontare tutte le sue paure. Si troverà coinvolto in situazioni più grandi di lui, pericolose per la sua stessa vita, nonché per quella di chi gli sta accanto. 
affronterà tutto, neanche lui sapendo bene come, con notevole autoironia e un bel po' di fortuna.


Recensioni clienti Amazon

Il secondo romanzo di un autrice che conosce perfettamente il fine umorismo. Ho letto la sua prima opera e i piccoli manuali che si trovano su questo stesso sito e non ne sono mai rimasta delusa. I protagonisti, sempre maschili, sono ben delineati e la Musu riesce a far ridere il lettore che può immergersi nella loro vita e nei loro ragionamenti, talvolta molto strambi ma sempre molto divertenti. L'umorismo non è per tutti, soprattutto ai giorni nostri in cui siamo abituati a leggere spesso libri umoristici di autori che in realtà lavorano in televisione o giù di lì. Una lettura da cinque stelle perché il romanzo è complesso e neanche molto breve eppure riesce a mantenere sempre il lettore attento, con un gran sorriso. 


Ho letto tutto di questa brillante scrittrice e anche questa volta, dopo aver finito di leggere le sue parole, l'ho fatto ritrovandomi con il sorriso sulle labbra. Ho comprato questo libro direttamente dal sito della Casa Editrice Libro Aperto Edizioni. Sapevo che mi sarebbe piaciuto e mi sono ritrovata una storia molto ben articolata. I personaggi sono ottimamente caratterizzati. Riderete e vi appassionerete alle avventure e disavventure di Guido, il protagonista. Amerete il gatto che è rappresentato sulla copertina. E' un bellissimo romanzo ricco di fine umorismo. Leggevo e mi sembrava di vederle quelle scene, come in un film. Bravissima. Aspetto con impazienza altre pubblicazioni della mitica Musu! Dopo aver letto questo libro ne avevo iniziato un altro e giuro che volevo abbandonare la mia nuova noiosa lettura per rileggermi "Non mettetemi fretta"! Non compriamo libri umoristici o di qualsiasi altro genere solo di personaggi famosi editi da CE potenti e fin troppo conosciute. Scoprite anche nuovi autori e CE giovani, serie, brave e gratuite come questa. Troverete (come fortunatamente è capitato a me con i titoli della Libro Aperto Edizioni) libri ed autori che non hanno nulla da invidiare a tanti scrittori noti e famosi, anzi...

 Maria Letizia Musu con questo suo secondo romanzo conferma tutte le cose buone che il primo romanzo (Appuntamento al buio) ci aveva offerto.
Se si vogliono trovare dei punti in comune tra i due titoli. sono il genere (naturalmente umoristico e la risata ci viene strappata spesso), la capacità di non far abbassare il livello d'attenzione nella lettura e sopratutto il fatto che anche qui, come in appuntamento al buio, il personaggio è un uomo.
Il motivo per il quale la Musu preferisce che i suoi personaggi siano dei maschietti farò in modo di chiederglielo, ma sicuramente sarà perchè siamo più credibili nelle situazioni raccontate nelle sue storie divertenti.
Oltre a Guido (il personaggio principale) altri personaggi davvero ben caratterizzati (e spesso divertentissimi) gli ruotano attorno, tra i quali una a quattro zampe (e baffi) che sicuramente tutti i lettori troveranno adorabile, anche perchè riesce a fare qualcosa fuori dal comune per quelli della sua razza, ma solo col suo padrone.
Consigliatissimo! 

sabato 16 aprile 2016

Le recensioni di Adriana Pasetto. La caduta di un uomo. Indagine sulla morte di Alan Turing.





Chi era Alan Turing? In pochi non sanno ancora che fu un matematico inglese, esperto anche di logica e crittografia; in pochi non sanno ancora che fu soprattutto grazie ad una sua invenzione che l'Inghilterra riuscì a contrastare l'avanzata dell'esercito di Hitler. Già, perché Turing inventò una macchina in grado di decriptare i messaggi tedeschi, e nessuno ne parlò fino agli anni Ottanta. Turing però era anche omosessuale e a quel tempo l'omosessualità era vista come una devianza e una perversione che portava dritti in carcere (Turing scelse invece di farsi somministrare ormoni femminili). In pratica senza Turing - ahhhh, il gender esisteva già - quasi tutti quelli che oggi, specialmente sui social network, si scagliano contro gli omosessuali e descrivono l'omosessualità come una pratica aberrante contro natura, non potrebbero usare i loro bellissimi computer per manifestare il loro disappunto. Come se poi a noi interessasse. Perché Turing era arrivato a capire che una macchina può pensare. Torniamo al libro però. L'autore, Lagercrantz, uno di quegli autori di cui si sbaglia sempre il cognome, è conosciuto per aver scritto il quarto libro di Millenium (S.Larsson), eppure in patria ha scritto anche molte biografie. Ed è bravo proprio in questo, ovvero nel documentarsi e scrivere biografie. Un po' meno nel romanzare una storia. Perché quest'opera, che ripercorre la vita di Turing a partire dal suo suicidio - insomma, ti chiudono in casa, ti sorvegliano e ti costringono a prendere ormoni femminili dopo che hai salvato le chiappe al tuo Paese - è molto interessante ma anche di difficile lettura, perdendosi tra teorie matematiche, logiche e toccando addirittura la fisica quantistica. Un libro che insegna qualcosa - voi lo conoscete il paradosso del mentitore? - e che può lasciare una punta di sdegno nelle nostre coscienze. In fondo, anche adesso, spesso si guarda più alla sessualità che all'intelligenza, all'orientamento sessuale più che alla bravura. Certo non capita spesso, e non si obbliga nessuno al carcere o alla castrazione chimica, però la discriminazione ancora esiste, basti pensare alle differenze ancora attuate in ambito lavorati tra uomini e donne. Turing, colui che salvò l'Inghilterra e forse non solo, era considerato un pericolo quando sarebbe bastato chiamarlo genio. Se vi interessa conoscere meglio la sua vita e il suo carattere (particolare sicuramente), non perdetevi questa opera ma siate pronti ad aprire la vostra mente a materie sconosciute (se come me non siete laureati in matematica o fisica, se due più due lo calcolate grazie alla calcolatrice e se nella logica vi perdete come in un bosco di notte). E guardatevi anche un bel film , tratto sempre da un libro, The imitation game. E attenti a non raccontare nulla di tutto questo ai vostri bambini, che il Gender vien di notte con le calze tutte rotte.

lunedì 11 aprile 2016

L'autovalutazione e la valutazione dell'insegnamento




Fare l’insegnante non è proprio come fare il muratore.
Se faccio il muratore, lavoro seriamente e utilizzo buoni materiali, ho la certezza che la mia casa non crollerà. Se faccio l’insegnate e lavoro seriamente e ho a disposizione tutti i supporti possibili e immaginabili, non ho la certezza di ottenere buoni risultati. Facilmente si può valutare il lavoro del muratore, tutt’altra cosa e farlo con il lavoro dell’insegnante.

Ritengo molto rischioso cercare di giungere ad un modello cui fare riferimento per una corretta valutazione o auto-valutazione del proprio operato. E’ assai rischioso costringere il processo educativo in una griglia rigida di risultati da ottenere. Quale criterio o gruppi di criteri potranno mai essere validi riferimenti per analizzare una realtà così multiforme e in continua evoluzione come quella del processo educativo?

Se è vero, secondo lo schema concettuale proposto da Mitzel (citato in Bennett, 1981), che una delle cinque angolature da cui esplorare l’efficacia dell’insegnamento è “il profilo professionale dell’insegnante, come repertorio di competenze da impiegare produttivamente in rapporto alla concreta situazione educativa”, mi chiedo anche che differenza c’è tra un insegnante che sa 5, e 5 trasmette e un insegnante che sa 10 ma trasmette 3? Anche se io fossi il più grande esperto mondiale in una qualche competenza, ma trasmettessi ben poco, che valore avrebbe questo in una possibile auto-valutazione del mio operato?
E il mio “impegno professionale nella scuola” (altra angolatura proposta da Mitzel) come potrebbe essere valutato? Senza niente togliere a coloro che ricoprono le funzioni più disparate, ma se io non amo gli incarichi che non mi mettono a strettissimo contatto con i ragazzi, se non mi sento pronta o competente per ricoprire una qualsiasi funzione nella scuola che non sia quella di “insegnare” devo auto-valutarmi negativamente? Oppure quali sarebbero gli incarichi che mi farebbero guadagnare dei punti nella valutazione?
E non mi sentirei mai individualista o solipsista, concetto quanto mai lontano dall’insegnamento. Come si possono assumere i concetti dell’egoismo e dell’utile individuale assieme a quello dell’insegnare, cioè dell’ “imprime un segno”, del comunicare, del fornire a qualcun altro una conoscenza, una possibilità, un ragionamento?
E che dire degli insegnanti che per star dietro ai vari “impegni professionali nella scuola”, trascurano il lavoro in classe?

Anche la “soddisfazione degli allievi, come rispondenza alle aspettative dei destinatari dell’azione formativa” è un aspetto delicato. A volte ci sono allievi soddisfatti di insegnanti definiti “mediocri” e ci sono allievi insoddisfatti di insegnanti considerati ottimi. I ragazzi spesso apprezzano aspetti del proprio insegnante che stonano con il “profilo e impegno personale” del docente.
E non è vero che preferiscono gli insegnati che li fanno lavorare meno. Mi sbaglierò, ma credo di aver compreso che i ragazzi vogliono sostanzialmente chiarezza e uniformità di comportamento, vogliono essere gratificati (perché in casa spesso non lo sono), voglio libertà di parola, vogliono lavorare senza disperdere le energie e vogliono quella che loro genericamente definiscono “giustizia”.


Forse ci si potrebbe basare sui “risultati di apprendimento, come esiti indiretti dell’azione formativa in base a cui verificarne l’efficacia”. Ma quante volte i risultati non hanno corrisposto i nostri sforzi, il nostro impegno, la nostra professionalità! Magari perché è mancato il tempo, il sostegno della famiglia (che talvolta troppo delega) o per altre ragioni.

Che cos’è allora l’insegnamento se non una farfalla che più si cerca di acchiappare e più sfugge, che più si cerca di catalogare e più svincola da ogni catalogazione, di cui esistono tante varietà, quanti sono gli insegnanti su questo pianeta?

Parrebbe a questo punto ovvio concludere che il rischio è troppo alto, che troppe sono le variabili in gioco per fornire un modello credibile cui fare riferimento.

Invece no. Bisogna fare questo tentativo, cercare di creare dei criteri, tentare di analizzare l’insegnamento in quegli aspetti che meglio possano essere valutabili. Ma questi criteri dovrebbero essere quanto mai suscettibili di cambiamenti, modificabili in ogni realtà scolastica. Questa è un’esigenza reale perché non di rado si incontrano docenti che si considerano ancora detentori di un sapere misterioso (eccoli i veri solipsisti), e quali piccoli reucci ti guardano dall’alto in basso della loro esperienza e in classe dettano regole assurde e impartiscono punizioni incomprensibili.

O che dire di chi lavora esclusivamente “a sentimento”, rollando di qua e di là come vascelli che non sanno che direzione prendere, affidandosi troppo alle capacità di improvvisazione, proponendo modelli incerti e troppo fragili ad una gioventù già di per se stessa incerta e fragile. Magari si auto-valutano degli ottimi insegnanti.

E se quindi una valutazione deve necessariamente esistere che sia non un’ennesima scusa per ghettizzare gli insegnanti un po’ fuori dal coro, quelli che magari non fanno memorizzare tutte le capitali del mondo ai propri alunni, ma trasmetto ideali, condividono esperienze valide, li fanno realmente crescere emotivamente, sviluppando la fantasia, la creatività, spingendo alla tolleranza, al superamento dell’egocentrismo, ecc. Che provino gli studiosi a valutare questi aspetti.

Ma se proprio vogliamo “intrappolare” questa farfalla, preferisco che si parli di valutazione centrata non “sulle azioni o sui soggetti”, ma “sulle azioni e sui soggetti”. Vorrei che non fosse un modello rigido cui ricondurre tutto, ma più modelli che scaturiscano da più ambiti (psicologico, pedagogico, sociologico, antropologico, ecc.). Vorrei un modello che variasse da contesto a contesto, da realtà a realtà, che tenga realmente conto dei “contesti” e delle “realtà”.
Più che un modello definito e rigido, di items da convalidare, mi verrebbe in mente una struttura tipo quella dell’atomo, con un nucleo e tante particelle che ruotano intorno. Il nucleo sarebbe la relazione insegnate-alunno, e le particelle sarebbero tutte le variabili possibili e immaginabili dell’alunno (famiglia, società, gruppo dei pari, ecc.), dell’insegnante (competenza, esperienza, ecc.) e la variabile delle variabili, quel qualcosa che non si può catalogare, che non troveremo mai in nessun manuale della Valutazione, su cui nessun docente universitario potrà mai tenere una lezione.
Ma che quando incontriamo un docente che ce l’ha, la riconosciamo al volo. O meglio, dal volo.




Le donne non fanno ridere



Questo sosterrebbero alcuni prestigiosissimi studi americani. In pratica, percentualmente, ci sarebbero più uomini che donne divertenti. Ma sarà vero?
Non voglio certo contraddire i “prestigiosissimi” studi, ma forse è bene fare un po’ di chiarezza.

Parrebbe, per esempio, che le donne non raccontano barzellette a sfondo sessuale se nel gruppo ci sono degli uomini, mentre questi ultimi non fanno distinzione di sesso, cioè non si mettono alcun problema se nel gruppo ci sono delle donne. Ma questo non varrebbe per le donne di Hong Kong che, a quanto pare, raccontano moltissime barzellette a sfondo sessuale, più delle americane e delle europee. Forse le donne di Hong Kong sono più disinibite delle altre? O sarà forse che gli uomini di Hong Kong non hanno pregiudizi nei confronti delle donne che raccontano barzellette a sfondo sessuale?

Dunque, escludendo le donne di Hong Kong (che sono delle gran simpaticone), l’umorismo sembrerebbe un tratto prevalentemente maschile. La donna che racconta troppe barzellette (per giunta a sfondo sessuale) probabilmente viene percepita come “poco seria”, e questo non avrebbe niente a che vedere con l’umorismo.

Ma forse la spiegazione è un’altra. Probabilmente l’uomo occidentale vuole vedere nella donna o la madre dei propri figli o la realizzatrice dei propri reconditi desideri. Nessuna delle due opzioni andrebbe d’accordo con l’umorismo, perché dare alla luce un figlio ha ben poco a che vedere col divertimento; non parliamo poi della seconda possibilità, che potrebbe sì avere a che fare col divertimento ma di altro tipo (non c’è niente che smorzi una performance sessuale come una risata nel momento sbagliato).

Dunque, gli esperti sull’argomento dicono che l’umorismo è un dominio prettamente maschile, ecco perché ci sarebbero più uomini che donne diverti, anche se non sono in grado di dirci il perché.

Grazie tante, eminenti studiosi. Nell’attesa di maggiori delucidazioni da parte vostra, vado a farmi una sana risata.

domenica 10 aprile 2016

Le Recensioni di Adriana Pasetto - Ho sposato una vegana


                               Giustificazioni: 
1. ho letto questo libro sapendo a cosa andavo incontro, avevo letto alcune recensioni e piccoli stralci; 

2. ho deciso di leggerlo comunque perché era ormai lì, era sera tarda e non avevo voglia di iniziare un libro più impegnativo. 

Premesse: 
1. Conosco persone vegetariane e vegane - alcune delle quali sono anche parenti stretti a cui riservo buona parte del mio affetto - e voglio difenderle a priori, perché almeno loro - nel vasto universo - sono persone normali ed equilibrate e non mi fanno sentire in colpa ogni volta che mangio qualcosa di simile ad un animale. Apprezzo chi riesce ad eliminare dalla sua alimentazione cose che per me sono fondamentali, perché io mangio bacon un giorno sì e l'altro pure. Credo realmente che un'alimentazione almeno vegetariana sia più salutare - convinzione personale, senza voler fare polemiche o simili - ma io proprio non posso farcela. Comprendo molto meno quel sottobosco misto di fruttariani, crudisti, igienisti e respiriani (si chiamano così?), perché tutto va bene finché non si diventa ossessivi - tra l'altro la cosa degli igienisti, nonostante abbia cercato informazioni ancora non mi è chiarissima. 

2. Non tutti i vegani sono pazzi, non tutti sono dei 'nazivegani', come quello che preferisce sua madre muoia, per intenderci, anche se il web è ormai popolato da certi personaggi niente male. Detto ciò, questo libro racconta di una 'naziveganacrudistasalutista' e non saprei neanche bene come definirla. Perché lei sì, lei è pazza. Non perché vegana ma perché in grado di brucare - e intendo realmente brucare - dell'erba da un vaso per non perdere certe proprietà. Insomma, anche mia madre mangia molta insalata e la mangia con gusto, spesso le dico che la lascerò brucare in un prato ma se la vedessi brucare da un vaso probabilmente la porterei subito da uno psichiatra. 

- Ma tu lo sai che dopo la doccia è sbagliato asciugarsi? Bisogna lasciar respirare le cellule e lasciare che l'acqua evapori da sola. 

(Certo, se vivi in Brasile potrebbe anche essere fattibile, se vivi in Svezia un po' meno, aggiungo io).
La protagonista di questo libro esiste, è la moglie dello scrittore/sceneggiatore/regista Brizzi, non è un personaggio di fantasia, E' una donna che al primo appuntamento ha salutato il suo prossimo marito dicendogli che sarebbe morto presto, è una donna che ha preteso che il marito chiamasse la Protezione Animali Esotici perché un gatto aveva attaccato una lucertola. 

- Sai, mi piaci davvero tanto...peccato che morirai presto! 

E potrei continuare così a lungo ma dovrei svelarvi veramente troppo, e magari qualcuno ha questo libro sul comodino. Insomma, se l'intento di Brizzi era farci ridere direi che è miseramente fallito: due o tre episodi strappano anche un sorriso ma per il resto il lettore si chiede solo 'a quando il TSO?'. La cosa peggiore, forse, è che lui, Brizzi, all'inizio del libro ci spiega che ha accettato certe cose all'inizio della relazione perché lei era veramente 'supercalifragili' mega gnocca, e ci chiede anche di cercarla sul web. Non ha detto che era intelligente, simpatica o che altro, solo che era bella. 

- La trovai proprio in terrazza. Era inginocchiata a terra, china su un vaso e brucava allegramente dell'erba. 

Avete letto bene. Brucava. Perché l'autore ha voluto scrivere tutto ciò? Me lo sono chiesta. Più volte. Ho pensato che volesse dare un'immagine migliore di sua moglie - una che se ti vede mangiare un kebab te lo strappa dalle mani e te lo butta via (ma non l'hanno mai menata?) - ma assolutamente non c'è riuscito. Quindi sono arrivata alla conclusione che abbia scritto questo libro solo ed esclusivamente per chiederci AIUTO. Sta cercando qualcuno che lo liberi. Non c'è altra possibilità. 

- Cioè tu preferisci essere tradita che trovare del formaggio nel frigo? 
- Ma certo! Non che mi faccia piacere, ma almeno quella è un'attività fisica che produce endorfine, riattiva la circolazione e migliora l'umore. Lo sai che ci tengo alla tua salute. 

Poco più di un centinaio di pagine di aneddoti simili a quelli sopra citati, escludendo qualche viaggio con frullatore in valigia e via dicendo. Poco più di un centinaio di pagine per comprendere che il titolo originale di questo libro dovrebbe essere 'Ho sposato una pazza'.

Prof, mi può fare un'altra domanda?



«Prof, mi può fare un’altra domanda?» 

«Vediamo… Quali sono le cause della Prima Guerra Mondiale?»

«Ehm…»

«Marco, non ti ricordi neppure questa?»

«No, prof… mi può fare ancora un’altra domanda?»

«Vediamo… La Prima guerra d’Indipendenza?»

«…»

«Neanche questa!»

«Eh, prof… mi può fare una domanda che so?»

«Ok. Cos’hai nel panino?»

«Questa la so!»